Dice il curatore Giorgio Bonomi:
(..) Pinelli 'rompe' il quadro come Griffa 'rompe' il telaio, e quest'ultimo pure partecipa di quella forma che è caratteristica principale del primo, la 'disseminazione', infatti l'artista torinese 'dissemina' i suoi segni sulla superficie[1].
Orbene, se l'essere e il non essere, allo stesso tempo, nella analiticità, intesa non già come metodologia bensì come gruppo operativo, appartiene ad entrambi gli artisti che qui presentiamo, c'è un altro aspetto che facilita e giustifica l'accostamento, quello del 'ritmo armonioso' dei segni e degli elementi costitutivi dell'opera.
Giorgio Griffa, infatti, da anni ama dipingere gli 'arabeschi' che come sappiamo hanno una lunga storia e tradizione, ma che, per restare in tempi più vicini a noi, ci rimandano a Matisse; inoltre non solo l'arabesco è elemento compositivo fondamentale per l'artista, ma viene anche, per così dire, teorizzato, perché dice che l'arabesco è quel segno che in ogni epoca e in ogni luogo viene riconosciuto. (..)
Le disseminazioni di Pino Pinelli ugualmente si presentano con un 'ritmo armonioso': frutto di una (simbolica[2]) esplosione, le parti della totalità originaria si collocano sulla parete con un ordine simmetrico o, per lo meno, euritmico. Gli elementi, quasi sempre monocromi e che si offrono con una 'pelle' vellutata al tatto per il trattamento della materia, si aggregano con interne proporzioni e con fondate simmetrie; allo stesso modo che i segni, le forme, i numeri sulle leggere tele di Griffa si alternano e si presentano ritmicamente dosate.